CINQUANT’ANNI FA USCIVA IN SEARCH OF SPACE DEGLI HAWKWIND E L’ASTRONAVE ROCK S’INOLTRAVA NELLO SPAZIO PIÙ PROFONDO
Lo space rock nasce negli anni Sessanta con la voce di Peter Jenner, manager dei Pink Floyd che declama corpi celesti nell’incipit di Astronomy Domine, e si sviluppa, continuando a inviare messaggi nello spazio o ricevendone da visitatori alieni, con gli stessi Floyd, Hendrix e persino gli Stones, finiti a “2.000 anni luce da casa”.
C’è poi la spinta propulsiva della Kosmische Musik di Tangerine Dream, Popol Vuh e Ash Ra Tempel, e siamo già arrivati agli albori degli anni Settanta, mentre una folle teiera volante lancia messaggi dal pianeta Gong.
È proprio in questo periodo, nel 1971, che i telescopi inquadrano un’astronave che viaggia a velocità pazzesca e sta abbandonando l’atmosfera terrestre. A bordo c’è una ciurma di vagabondi, hippie, capitanata da un ex busker di nome Dave Brock. Sono gli Hawkwind, qualche volo di ricognizione l’hanno già fatto un anno prima con l’album d’esordio ma ora si sono calati nel ruolo di esploratori e vanno alla ricerca dello spazio: In Search of Space. Non faranno più ritorno, pur continuando a trasmettere regolarmente dalla profondità del cosmo sino ai giorni nostri, con una longevità davvero sorprendente e frequenti cambi di equipaggio.
Il 1971 è anche un anno importante per le missioni spaziali più ortodosse, un anno al contempo esaltante e tragico. A cavallo fra luglio e agosto gli americani soggiornano sulla Luna per quasi tre giorni e ci scorrazzano con il rover, il piccolo fuoristrada che permette loro di compiere varie attività scientifiche.
Ma poco tempo prima, il 30 giugno, si è consumata la tragedia della Sojuz 11. I sovietici erano più che soddisfatti di aver raggiunto con quella navicella una stazione spaziale, di essere stati così i primi ad insediarsi e abitare un avamposto in orbita intorno alla Terra, per ben tre settimane. All’atterraggio della Sojuz nella steppa fanno però la drammatica scoperta: i tre cosmonauti sono morti asfissiati a causa di una valvola che avrebbe dovuto bilanciare la pressione d’aria nella capsula con quella esterna… doveva entrare in azione nell’ultima fase del rientro e invece si attivò subito dopo il distacco dalla stazione spaziale.
In ottobre, infine, scatta la missione Hawkwind. Il comandante ovviamente è Dave Brock, addetto a vocals, chitarre e audio generator, Nik Turner è il timoniere nonché il responsabile di flauto, sax e audio generator; ci sono poi Dave Anderson a basso e chitarre, Terry Ollis alla batteria e Del Dettmar e Dik Mik ai sintetizzatori. Sono lontane le atmosfere morbide e sognanti, traboccanti di tastiere, dei colleghi tedeschi, qui l’attrito e il rombo dei motori sono assordanti; il suono è grezzo, ripetitivo, in bilico fra l’hard rock e il proto-punk, è un vortice oscuro e avvolgente, con una tensione cui contribuisce il sax di Turner: questa l’accoglienza di You Shouldn’t Do That, il brano d’apertura. E se un riff aggressivo ed epico impronta di metal Master of the Universe, cavallo di battaglia a lungo proposto nel tempo, i vagabondi dello spazio sanno alternare splendidi episodi elettro-acustici intrisi di melodia e disturbati qua e là da inserti di tastiere aliene. Si susseguono così You Know You’re Only Dreaming, We Took the Wrong Step Years Ago e Children of the Sun, dove il flauto si libra e galleggia, senza più gravità.
In Search of Space è anche il disco dove per la prima volta è accreditata Stacia, la danzatrice e artista visiva che parteciperà ai leggendari live, concerti dalla durata estenuante (quattro ore!) densi di laser e light show, esibendosi con il corpo dipinto con colori luminescenti. E sempre qui ha inizio la collaborazione con il poeta Robert Calvert, autore di un libretto di 24 pagine allegato al vinile dal titolo The Hawkwind Log. È un diario di bordo che detta le coordinate della filosofia Hawkwind e dà il la ad una saga, che via via si svilupperà e trarrà nuova linfa dal prossimo ingresso di un tale Lemmy Kilmister.
Ad ulteriore testimonianza di quanto l’album sia una pietra miliare, una sorta di spartiacque, ecco infine la scritta che campeggia nella back cover. Utilizza caratteri delle lingue nordiche, fra cui il segno della dieresi che diverrà distintivo di alcune band hard rock/heavy metal, e soprattutto ha un effetto straniante:
“TECHNICIÄNS ÖF SPÅCE SHIP EÅRTH
THIS IS YÖÜR CÄPTÅIN SPEÄKING
YÖÜR ØÅPTÅIN IS DEȀD”
La prima suggestione evocata mi ha rimandato a Ubik, il romanzo di Philip K. Dick (pubblicato nel 1969) dove in un clima surreale, in una realtà illusoria i morti sopravvivono in una condizione sospesa, di semi-vita, e riescono a comunicare con i vivi “chiusi nel loro feretro trasparente, prigionieri di un effluvio di nebbia ghiacciata”.
Poi è arrivato il ricordo di Dark Star, l’esordio cinematografico di Carpenter datato 1974: l’eccentrico equipaggio di un’astronave che vaga nel cosmo contempla infatti un comandante ferito mortalmente, ibernato e così ancora capace di parlare con i compagni di viaggio. Ma queste sono davvero altre storie.