L'arte del paradosso

Di Joe Santangelo

(scrittore, manager, atleta marziale)

Tutte le discipline da combattimento, indistintamente, se spinte alle estreme conseguenze e se praticate inspirandosi alla filosofia che ne costituisce il perno fondante, divengono un’ineguagliabile forma d’arte e sono definibili come “Strategie del Paradosso”. L’osservatore disattento – ma anche il principiante o colui che resta per sempre disinteressato all’approfondimento delle prerogative “interne” dell’Arte Marziale, quelle più affascinanti, quasi mistiche (potremmo dire con coraggio) – potrebbe giudicarle alla stessa stregua di altre discipline sportive individuali e situazionali, perché è in questa categoria che ciascuna disciplina è di diritto inquadrata dalle Istituzioni (C.I.O.: Comitato Olimpico Internazionale) e dalla Teoria dell’Allenamento, cui gli insegnanti ispirano la pratica e il generico “esercizio” sportivo. Questa stessa persona potrebbe descrivere l’Arte Marziale come quello sport che educa l’atleta a difendersi, a offendere – quando necessario – e che gli permette di conseguire uno stato di forma invidiabile, in quanto la sua pratica mette in moto tutti i distretti neuromuscolari e legamentosi dell’essere umano. Descriverebbe infine il praticante come un atleta serio e disciplinato, quel tipo di persona di cui istintivamente ci si può fidare. Tutto questo è già di per sé molto vero ed è in questa sede completamente sottoscritto e approvato, ma in realtà costituisce la descrizione dell’Arte Marziale interpretata a un livello molto superficiale, quasi banale. Restituisce l’idea di “ciò che si vede”, della percezione sensoria del fenomeno, ma si è chiaramente lontani dal trasferire una conoscenza compiuta dell’attività e dei “doni” che questa forma d’Arte fornisce al praticante nel corso degli anni e che restano di sua proprietà per sempre.

L’essenza dell’Arte Marziale è il compimento del paradosso.

1. La strategia suprema è “l’assenza di strategia”. Come già visto, è corretto definire le discipline da combattimento come una delle modalità di espressione della strategia di guerra. Per semplificare possiamo considerarle come “metodo”, modalità di esecuzione di tattiche “corpo a corpo” o “individuali”, ovvero basate sul confronto fisico tra un contendente e i propri avversari. Dunque l’arte marziale, in quanto “figlia” dell’alta strategia, non può esserne avulsa: è essa stessa “strategia”. Eppure la forma di strategia più alta coincide proprio con il suo opposto. Questo assunto apparentemente paradossale può essere letto a due livelli:

  • La conoscenza compiuta di tecnica, tattica e strategia, quando è stata interiorizzata e automatizzata, rende “inutile” il riferimento a una scelta, trovandosi il combattente nella condizione – consapevole – di essere egli stesso uno strumento di espressione del combattimento e reagendo nel modo più congeniale alla circostanza, alle aspettative, alla necessità. Dunque è “privo” di strategia, nel senso che non è più lui a scegliere, perché non può decidere. E se una strategia non può essere scelta, se non può essere ascritta al soggetto che la sta applicando, allora dovremo concludere che “non c’è strategia”.
  • Il Guerriero che abbia interiorizzato ogni aspetto della sua arte si trova in uno stato di “vuoto mentale” permanente che gli permette di trasformare il mondo circostante senza agire, senza impegnare energie per sistemare gli oggetti, le risorse, gli individui che abitano il suo mondo. Egli stesso “è” la strategia, nel senso che la sua presenza, la sua reputazione, la fama delle sue gesta e della sua preparazione lavorano a suo favore e ripuliscono la strada da intenzioni ostili, da avversari, dal nemico. Egli si muove nel mondo e questo gli corrisponde al millimetro: l’intero universo replica alla sua calma interiore con altrettanta concordia. Il Guerriero autentico – in definitiva – vince senza combattere.

2. La tecnica suprema è “l’assenza di tecnica”. La tecnica si osserva, poi si invidia, poi si esegue e si ripete, poi si acquisisce e infine si dimentica. Il combattente completo non ha forme “privilegiate” perché conosce il repertorio alla perfezione, ma soprattutto conosce l’inutilità dei progetti: egli pro-agirà o re-agirà alla circostanza che gli si disporrà dinanzi e questa stessa richiamerà una tecnica piuttosto che un’altra (azione), piuttosto che niente (inazione). Assenza di tecnica significa superamento del pregiudizio: non esiste una tecnica sicura, esistono “tutte le tecniche contemporaneamente”; non esiste “quella tecnica di quell’Arte Marziale”, esiste “la tecnica necessaria per quel dato momento”. Assenza di pregiudizio significa padroneggiare tutto il repertorio, ma “tutto” equivale a “niente”, dunque non esiste la tecnica, ai livelli assoluti.

3. La forza suprema è la debolezza. L’applicazione della “forza” – come intesa comunemente – raggiunge un limite di efficacia quando non è contemperata da altri fattori determinanti come la cedevolezza (utile per trarre vantaggio dalla foga avversaria), la rapidità d’azione (che è minacciata dall’espressione della forza bruta, in quanto la logica del suo funzionamento prevede la contrazione “progressiva” e non istantanea, dei fasci muscolari), la scioltezza articolare (che è inversamente proporzionale alla contrazione), la circolarità delle azioni (normalmente frustrata dall’applicazione della forza, che per definizione si esprime in modo lineare). Dunque, il grado massimo di efficacia origina da una mescolanza di fattori chiave che ricordano molto di più la “duttilità” che la “durezza”: il Combattente non è un duro, ma un uomo malleabile.

4. La competenza suprema è “l’assenza di forma”. Tecnica è forma, etichetta è forma, regola è forma. L’efficacia assoluta non è mai determinata dall’osservanza della forma: la tecnica non è mai fine a sé stessa, altrimenti trattiene il praticante allo stato gretto dell’atleta ordinato, preciso, talentuoso, ma privo di una capacità di discernimento. Il Guerriero non è un Soldato, ma generale e armata a un tempo: egli dev’essere in grado di interpretare le forze in gioco, le opportunità e le minacce, deve saper impartire le istruzioni e deve saper motivare contemporaneamente il plotone. Essere il cocchiere e la carrozza stessa che lo trasporta: è questa la dualità che deve vincere il combattente ed è lo stesso esercizio quotidiano che deve appartenere all’uomo comune, lungo tutto il percorso della sua esistenza terrena.

5. La vittoria suprema è l’assenza di conflitto. In definitiva e contrariamente ai luoghi comuni, il combattente puro – il Guerriero – è un atleta sprovvisto di tecnica e di strategia, cedevole nel suo temperamento e soprattutto lontano quanto più possibile dal conflitto. È una persona docile e serena che tende a privilegiare un lavoro “interno” – e dunque nell’ambito della discrezione, dell’interiorità – piuttosto che un lavoro “esterno”, visibile e manifesto. Dove arriva lui è l’ordine e l’ordine è il luogo nel quale lui arriva. Benché nel suo microcosmo vi siano ancora elementi di ostilità, accade che ogni qual volta la contingenza lo richieda e il suo potenziale nemico muove verso di lui, verso la sua sfera d’attenzione, le distanze si accorciano e fatalmente le intenzioni cominciano a mutare, le pulsioni di aggressività si stemperano e l’avversario arriva indebolito, appagato, quasi rassegnato. Quello che si preannunciava essere uno scontro si trasforma così in un negoziato e si sviluppa con una forma di rispetto che sopprime le ostilità e si limita a sancire la gerarchia dei contendenti. Lo scontro supremo – pertanto – è quello che non prende luogo, ma il cui risultato è tangibile, anche se non immediatamente percepibile. Una forma di armonia sviluppata a un nuovo livello, nella quale il contendente più debole ha riconosciuto la superiorità del più forte senza la necessità di una lotta, senza spargimenti di sangue. Il confronto ha preso luogo nell’invisibile e ha prodotto un nuovo equilibrio.

“Primum vivere, deinde philosophari”, dicevano i latini. Per vincere bisogna innanzitutto “non perdere” e l’obiettivo precipuo del Combattente è quello di sopravvivere. Una volta che ci si è organizzati (prudenza tattica, cautela, assetto tattico) allora ci si può porre altro genere di problemi. Un uomo esperto in battaglia prima di tutto si rende invincibile e poi attende che il nemico esponga la sua vulnerabilità. È questo il senso più alto dell’Arte Marziale. Prepararsi alla lotta, ininterrottamente, ferocemente, e poi aspettare. Aspettare che si apra una breccia, aspettare il primo errore dell’avversario.

2 comments on “L'arte del paradosso”

  1. Penso che il tuo punto di vista ( che condivido assolutamente) possa essere utilizzato da tutti...anche non necessariamente conoscitori di arti marziali. Chi è esperto del proprio lavoro potrebbe usare quello che dici difronte alle avversità della vita quotidiana. Grazie e buon lavoro

  2. Tutti possono usare questo modus operandi nella vita lavorativa...anche chi non sa nulla di arti marziali ma ogni giorno apprende nuove conoscenze nel suo lavoro..grazie e buon lavoro

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