Di Marco Porsia
[Foto: Stefano Cacciatore]
A volte osservo i volti delle persone, per la strada, trasognati, avvolti nelle loro frotte di pensieri, di consigli per gli acquisti, di vorrei ma non posso, di potrei ma non riesco, di riuscirei ma non voglio. A volte quegli occhi guizzano verso gli oggetti del desiderio, quei volti si contraggono, quei pensieri si coagulano. Altre volte, fissano piccoli schermi, schermi più grandi, siedono e osservano grandi schermi, enormi schermi, e seguono senza fiatare vite, parole, gesti di altre persone, proiettate su quegli schermi; più spesso quelle storie sono inventate, altre volte le cose sugli schermi stanno accadendo realmente, da qualche parte, da qualche altrove, in qualche altro momento, e normalmente questo interessa alle persone ben più di qui e adesso. Ma dove è adesso e quando è qui?
Ogni tanto li vedo, li sento cantare. Ogni tanto canto anch’io. E non solo consapevolmente, ogni tanto comincio a intonare qualcosa che non somiglia a musica creata da altri umani, o meglio ci somiglia ma non compone alcun frammento di memoria. Nasce e basta, e riesco a sentirla, a vederla, quasi a toccarla. Poi magari si associa a un’immagine, a una parola, ma certe volte sgorga dalla testa, gocciola nelle orecchie così, senza nessuna ragione apparente. Del resto non c’è nulla che motivi l’esistenza della musica, visto che non ha funzione apparente né di definizione, come la parola o i numeri, né di illustrazione della realtà, così come l’hanno tutte le arti figurative, oltre che ovviamente la letteratura. La musica è il riflesso più palpabile del tempo che abbiamo.
La musica è fatta di intervalli, di pause, di suoni e di silenzi, di frequenze alte e basse, la musica è amministrazione dell’aria nel tempo. L’energia che si forma all’emissione di un suono attraversa l’aria ed entra in contatto con le sue particelle, caricandole di energia che viaggia, che giunge ai nostri sistemi percettivi, che risuona nella nostra mente. I suoni suscitano sensazioni reali, palpabili, i suoni vengono analizzati, ed influenzano tutti gli organi, in modo differenziato. La musica libera endorfine, crea benessere, ma la musica può aizzare, impaurire, infastidire, scatenare; la musica può fare vivere, ma può anche fare impazzire.
La musica è iterazione, è disciplina, ma è anche improvvisazione, virtuosismo, la musica è permutazione, è riempimento dei vuoti, svuotamento dei pieni. La musica è organizzazione, scansione del tempo; e non solo. La musica è accordo e discordo, consonanza e dissonanza, la musica è interazione, relazione. Nella musica, il canto è qualcosa che va oltre, dato che il suono viene da te, e ne puoi controllare intensità, altezza, e persino sfumature, intenzioni. L’intonare una semplice vocale fa risuonare il tuo corpo, ti fa sentire vitale, risente severamente della tua posizione fisica, del tuo stato mentale ed emotivo, del tuo sistema digestivo, della tua capacità polmonare, della condizione dei tuoi organi di fonazione.
Se poi articoli, oltre alla vocale una sillaba, gli organi che entrano in movimento, con le consonanti, diventano di più, e i suoni cambiano, si ampliano. Se poi le sillabe diventano parole, e le parole si sdraiano, camminano o cavalcano sull’onda del suono, allora la canzone diventa uno strumento potente. Addestra la memoria ad impartire gli ordini alle diverse parti del corpo per essere eseguita, fa scivolare la mente in un paesaggio consueto, ma che si manifesta soltanto quando la canzone inizia, e si materializza lungo l’esecuzione, senza troppe incertezze ma anche senza ovvietà. Niente, durante una canzone, è lasciato al caso. Neppure il caso stesso.
Si canta per occupare spazio e tempo attorno a sé; si canta per verificare la profondità del silenzio, secondo il principio dell’ecoscandaglio; si lanciano forme intonate di comunicazione, anche soltanto per cogliere l’attenzione del proprio sé, che normalmente rincorre il diadema infinito delle nostre scadenze, delle nostre ricorrenze. La nostra maledizione, ripetere per rinnovare, rinnovare per ripetere. Siamo affezionati alla permanenza, siamo affascinati dal divenire; niente come la musica esprime questo irrefrenabile dualismo.
Così, inseguiamo con la memoria le canzoni che abbiamo incise nei nostri alleli, e contemporaneamente cerchiamo nuove assonanze possibili, ci chiediamo cosa potrà suonare nuovo domani. Senza una parte di questa doppia intenzione restiamo monchi, come se contravvenissimo alla natura stessa dell’universo, come se ci rifiutassimo di collaborare al disegno che, ineluttabilmente, ci comprende tutti, anche se spesso non risulta comprensibile. Certo, non si tratta di un progetto statico, ma basta concentrarsi all’ascolto, liberarsi dal rumore bianco, sovente bianco-sporco, che ci molesta i pensieri, ed il nostro posto, il nostro ritmo, la nostra intonazione vengono fuori da soli.
Una canzone è un’arma di distrazione di massa. Penso a quante volte dei ritornelli davvero orribili mi sono risuonati tra le tempie, sono persino usciti, seppure con notevole sforzo dato dalla mia resistenza cosciente, dalla mia bocca, e ho masticato parole inutili, e ho riso di me e della mia debolezza. Una canzone accompagna i gesti di chi vive, ne crea la motivazione, ne sorregge lo sforzo, ne idealizza i traguardi. Eppure le canzoni devono essere vive, mutevoli, devono impregnarsi di realtà, e restituirla amplificata, decodificata.
Posso dimenticare quello che ho mangiato tre giorni fa, alcune delle cose che ho fatto un mese, un anno fa, ma ricordo perfettamente delle canzoni che ho imparato più di trent’anni fa. La memoria dedica molto spazio alla musica; abbiamo costruito la tecnologia a nostra immagine e somiglianza.
Eppure, nonostante tutto questo, comincia ad affiorare tra le pieghe, le piaghe, dell’umanità, questa nuova specie di umani senza canto. Non che non sappiano cantare, non che non possano assorbire e ripetere, instancabili stakanovisti del karaoke, più di una melodia, riprodurre, replicare. Ma non ci mettono curiosità, non ci mettono vita. Lo si vede nella loro capacità di interazione col frastuono, con la proliferazione di stimoli auricolari che sevizia questo nostro modo, questo nostro mondo. Lo si vede nella sicurezza granitica delle loro regole, nella loro disarmante semplicità funzionale. Non che non sappiano cantare, ma fanno come se la musica, il canto, fosse qualcosa che scorre su di loro, che li attraversa, ma non in grado di essere vissuto. Un elemento estraneo, influente, ma generato da altri, in modo altro. La loro canzone è quindi un’iniezione di coscienza indotta, un’istruzione, una stringa di codice.
La magia è parola cantata, accende, accede a determinati controlli. La magia è controllo, e manipolazione della volontà. La canzone è controllo, ma è anche assenza di controllo, è voce sguinzagliata a inseguire note ignote. La canzone risuona, come la vita, l’energia che genera la vita risuona senza sosta, da uno stato all’altro in modo indistinguibile. Tutti cantano la canzone, nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha pensata.
Eppure, nonostante tutto questo, il trucco non c’è, e non ci sono i cattivi sovrani, i cupi arconti dallo spazio profondo, al di là del tempo e del suo concetto monco. C’è solo la profonda, incancellabile paura di comprendere, c’è il senso della ricerca, il senso, i sensi. Nessuno davvero ha dato quell’ordine, nessuno ha mai suonato quei suoni, che risuonano stanchi soltanto perché sono poveri di volontà. Intanto, ammainiamo lo sguardo e facciamo finta di niente. Facciamo finta.
Restituiamoci dunque il canto, inspiriamo profondamente abbassando il diaframma, stendiamo la nuca, rilasciamo la mandibola, tratteniamo l’aria un istante, lungo, silenzioso, vibrante. Poi, poggiamo la voce su di un cuscino di aria tiepida e decisa, e lanciamola sui nostri volti grigi di disprezzo e di rassegnazione. Le parole, i nomi, usciranno a frotte, come sciami di insetti impazziti di libertà. Restituiamoci il canto, senza il quale l’umano diventa letteralmente lontano dalla realtà. Distante. Vuoto. Inadatto.