Recensione del nuovo singolo dei Red Hot Chili Peppers "Black Summer"

di Federico Francesco Falco

L’ultima volta che ho sentito una canzone di Frusciante con i Red Hot, non esistevano gli IPhone, mi ero solo appena iscritto a Facebook e usavo ancora MSN. Soprattutto, però, i singoli uscivano con lo scopo di farsi comprare e poi convincerti ad acquistare anche l’album. Dani California fu l’ultimo di questa serie, una canzone ai tempi molto contestata e che rischiò anche una causa legale con Tom Petty. La gente nei forum era pure abbastanza delusa per il ritornello “alla Ozzy” considerato scarico. L’unico punto su cui tutti concordavano positivamente riguardava l’omaggio a Hendrix nel solo. Il resto aveva diviso non poco.

Sedici anni più tardi, quasi nessuno compra più dischi, un biglietto per il concerto costa il triplo di allora e Dani California è diventata un classico. Un po’ perché effettivamente a bocce ferme si è sempre più ponderati, un po’ perché sono gli anni a rodare le canzoni.

È il turno di Black Summer che, in questo senso, è anche poco comparabile agli altri apripista. Non deve convincere nessuno a spendere soldi, se non quelli che ancora devono acquistare i biglietti per i live. Quindi la band non sembra voler puntare ad un pezzo “forte” ma al brano più identitario. Qualcosa di accogliente per chi ha già abitato il loro suono. Come la copertina del disco, che non piace nemmeno a me, ma con quell’enorme asterisco sparato al centro mette subito le cose in chiaro. Chi è, dove vuole andare.

Ce n’era bisogno. Venivano da un album che era stato scritto a metà da un produttore esterno (Danger Mouse), con un metodo che non era loro consono: senza Jam e provando un po’ a strizzare l’occhio ai fan dell’R&B, e tra i singoli c’era persino una cover. A me poi manco era dispiaciuto, ma affondandoci le orecchie ho sempre sentito un retrogusto un di... forzato. Come se si fosse un po’ costretti a cambiare non perché realmente motivati da una voglia di sperimentare (By the Way), ma perché non hai più le carte da mettere sul tavolo e fare il tuo gioco.

Frusciante, dal canto suo, si era impegnato un decennio intero a far scappare a gambe levate buona parte di chi aveva iniziato a conoscerlo con Shadow Collide With People e tutte le cose più vicine ai Red Hot. E qualcuno si stava anche preoccupando di COME fosse tornato nei ranghi.

Davanti a questo scenario, Black Summer non è solo la prima canzone che abbiano scritto nel nuovo corso: rappresenta soprattutto la rassicurazione che sono ancora quei quattro. Gli elementi che in gergo si chiamano “fan service” ci sono tutti: Kiedis e il suo “Get it On”, il modo in cui John attacca l’assolo “friggendo” la chitarra o la geometria iniziale di Flea; potrei citare anche il modo di lavorare sotto di Chad che mi ha ricordato Californication e le sue entrate “a pochi fronzoli” (e credo non sia neppure a metronomo). L’insieme ha il suo perché, prima o poi qualcuno ti sorprende a canticchiarla, e non il ritornello, ma la strofa. La prima strofa è la cosa più orecchiabile, e ti resterà, infida, in qualche modo in testa.

C’è chi pensa che suoni come una b-side di By The Way, è vero, ma non è un insulto o un ridimensionamento. Per me, anzi, ci sono due spunti su cui riflettere: metà dei pezzi rimasti fuori da BTW meritavano tranquillamente farne parte, alcuni ne avevano addirittura più diritto! Idem per Stadium. La seconda precisazione che mi sento di fare riguarda il sound: è più “asciutto” rispetto a ciò che siamo abituati a sentire nei dischi della band, ma non nelle b-side, che spesso erano zona più franca e a John veniva concesso più spazio per smanettare. Perché Rubin stava un po’ più da parte. Whatever We Want, Lately, Rivers of Avalon... sono tutti brani più da impatto e sbrigativi.

Magari nel presente si è deciso che quello stile di produzione meritava un disco. E potrebbe essere comunque la novità di una band che ha quattro decadi sulle spalle, forse tra le poche che sarebbe ancora lecito aspettarsi da gente di questa età, volendo anche essere realistici rispetto a ciò che fanno gli altri colleghi coetanei.

Riguardo la produzione, oltre a certe b-side, Black Summer mi ricorda più il John del 2004. Quello dai volumi creativi, che ti fa esplodere il secondo ritornello sulla tromba di Eustachio: con un disco come Stadium Arcadium non avremmo avuto il medesimo effetto. Non credo sia un pezzo overprodotto come quell’album, non per nulla a mixare sembra esserci solo Ryan Hewitt, che era con John in quegli anni da solista, così come al mastering del vinile c’è Bernie Grundman, una garanzia (quest’ultimo curò il vinile di Stadium: confrontatelo con il Master del cd, non c’è paragone. E mi sa sarà così anche a sto giro).

Tornando a Black Summer, suona più minimal anche per altri motivi: sulla chitarra le sovraincisioni sono quasi zero, i cori solo accennati, a lanciare la voce più nuda di Antonio piuttosto che coprirla sotto al mantello delle backing vocals ogni santa volta com’era in Stadium. Può essere un’arma a doppio taglio sui ritornelli, qui è un po’ debole, ma è da sempre una fragilità dei Red Hot melodici. Sta di fatto che io non adoro nemmeno come è prodotta la voce di Kiedis nel disco del 2006, quindi se vogliono cambiare approccio non sarò io ad oppormi. A seconda della tipologia dei brani troveremo pregi e difetti.

I punti di forza però vanno osservati con ancor maggiore attenzione. L’assolo colpisce al cuore come sapeva fare a suo tempo, è quello ponderato, hendrixiano il giusto e non sborone alla Stadium. Se non ti sbriciola quel po’, tocca correre dal cardiologo con urgenza. Si tratta proprio di quel genere di assoli che non senti più in radio e che sembrano avviarsi all’estinzione, dovremmo tenerceli stretti.

Il minimalismo non si ferma all’arrangiamento o alla produzione, influenza anche il minutaggio: non bisogna infatti sottovalutare il fatto che si poggi in soli due ritornelli senza strafare. E questo è un punto che fregava un bel po’ di pezzi (soprattutto singoli) nel passato recente. Ma il culmine della mia riflessione riguarda un altro aspetto che mi sta a cuore, forse più di tutti, e che è rimasto sottovalutato in molte delle prime analisi: la naturalezza.

La naturalezza è l’aspetto che negli ultimi Red Hot mi è più mancato. A volte facevano cose buone, in uno o due tentativi erano riusciti in qualcosa di davvero bello (Goodbye Angels), ma quell’ingrediente oramai latitava. È quell’elemento che non ti fa sembrare che i musicisti stiano lavorando ma bensì creando, perché si divertono e hanno affiatamento. Qui c’è. Si sentono, nel loro rincorrersi e cercarsi. Sì, quei due. Quell’intreccio chitarra e basso che se ne va poi a insinuarsi nella prima strofa. Il basso che passeggia sopra le corde di chitarra. A me, a livello compositivo questa cosa mancava come l’aria. L’avevano sfiorato solo in Encore, ma il passaggio tra jam a canzone aveva rovinato quella intuizione. Qui no. Ed è una firma importante della band: o ce l’hai o non nessun produttore può venirti a portartela in sala avvolta in carta da forno. Flea ha passato dieci anni o nascondendo Josh, oppure provando a farlo “vincere”.

Personalmente credo che questa formazione si possa permettere di fare canzoni rock asciutte ed essenziali senza dover per forza sentirsi in dovere di bissare una Otherside. Per le mie aspettative è l’ideale: la chance di avere, tra due mesi, tra le mani un buon disco con pregi e difetti che mai e poi mai avrei pensato di poter più sentire. Non so voi altri che aspettative avete su questa reunion; io, da questi sessantenni, non attendo più canzoni che mi salvino la vita, aspetto brani che mi aiutino a renderla più piacevole e che mi ricordino come questo grande amore sia incominciato. Voglio abitare quel suono che mi fa sentire a casa, ma senza pretendere ciò che sentivo da ragazzino.

Diventerà un classico? Forse no oppure sì, o forse non è nemmeno necessario. Non credo comunque lo scopriremo a breve, la stessa Dani California insegna, ma potrei citare anche Fortune Faded. Se c’è una cosa ho imparato è che certe sonorità vanno lasciate respirare e invecchiare con calma. Magari mischiarle alle proprie esperienze e poi tornare a riascoltarle. Una cosa che posso assicurare è che Black Summer non è il tipo di brano che cerca il consenso di un pubblico diverso o più giovane come provava a fare Dark Necessities, rivuole semplicemente indietro il suo di qualche anno prima. E secondo me se lo sta già riconquistando. Poi, il resto verrà da sé.

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